Ispirazione Cristiana nel Diritto
A.N.A.C.
Associazione Nazionale Avvocati Cristiani
IL DIRITTO ALLA VITA COME FONDAMENTO DEL DIRITTO ALLA PACE (Profili giuridici alla luce dell'Enciclica Evangelium Vitae) --------------------------------------------------------------------   1.  Le espressioni diritto alla vita e diritto alla pace talvolta non trovano grande accoglienza tra gli operatori del diritto: sono infatti mutuate dal linguaggio filosofico e teologico ed appaiono difficilmente circoscrivibili nel più ristretto ambito giuridico. Ad esempio, sono poche le Costituzioni civili che prevedano in modo positivo il diritto alla vita, e pochissime di queste propongono il concetto di diritto alla pace; la Costituzione italiana per conto suo, che pure è tra le più giovani e le più liberali, non prevede in modo formale né l'uno né l'altro dei diritti appena richiamati. Tuttavia, si deve constatare che prendendo come parametro di riferimento il diritto vivente, ed in particolare le costituzioni c.d. materiali, entrambi i diritti si sono nel tempo progressivamente rafforzati e specificati, assumendo i connotati di valori costituzionali. Il diritto alla vita è pertanto oramai riconosciuto come "presupposto necessario di ogni altro diritto costituzionale", tanto da configurarsi come un valore dell'ordinamento,  il cui rispetto è imposto direttamente al legislatore prima ancora che a ciascun cittadino.  La sottolineatura giuridica del diritto alla vita appare la meta di un percorso culturale che ha condotto l'uomo - inteso non solo quale entità fisica, ma in modo complessivo come insieme di idee, spirito e coscienza - al centro dell'ordinamento giuridico.  Evidentemente, si tratta di un itinerario ben conosciuto dal diritto canonico (la legge è per l'uomo e non l'uomo per la legge), mentre è ancora agli inizi negli ordinamenti laici che,  come è noto, affondano le loro radici in una concezione che antepone lo Stato all'individuo. Non sarebbe quindi scientificamente corretto sottacere la confusione che in questi ordinamenti ancora ruota intorno alla definizione stessa del diritto alla vita: per alcuni autori infatti esso non va inteso in senso pieno, quanto secondo un'accezione parziale che suppone diverse forme della qualità della vita, tanto da potersi riferire solo a quelle vite 'che vale la pena di vivere', assumendo così i connotati di un 'diritto ad una vita insigne'. Nello stesso tempo, esso è talvolta concepito in modo speculare come diritto sulla vita, tale da considerare legittime le forme di eutanasia in quanto espressioni anch'esse del diritto alla vita. In ogni caso, nonostante l'eterogeneità dei punti di vista, anche coloro che si richiamano al diritto alla vita in forme massimaliste, non possono - almeno sotto il profilo logico - fare a meno di intenderlo nella sua accezione primaria, per cui il diritto alla vita deve innanzitutto essere concepito in senso fisico.  Sotto questo profilo, Il Magistero cattolico - e da ultimo l'enciclica Evangelium vitae -  chiarisce dettagliatamente come la 'pienezza della vita' passi per un riconoscimento preciso del diritto di vivere 'dal primo inizio fino al suo termine'. Considerata poi l'evoluzione sociale e le attuali condizioni storiche, in modo molto appropriato questa enciclica richiama alla vigilanza verso le forme più moderne di attacco alla vita, che vengono sovente occultate mediante 'locuzioni di tipo sanitario, che distolgono lo sguardo dal fatto che è in gioco il diritto all'esistenza di una concreta persona umana'. Da un lato quindi il diritto alla vita è riguardato in una prospettiva concreta, ossia nel senso del valore  della vita di ciascuno, in ogni sua forma, in quanto espressione dell'amore di Dio per ognuno dei suoi figli; dall'altro lato esso perde l'accezione individualista, per procedere 'ben oltre, sino ad intaccare e stravolgere, a livello mondiale, i rapporti tra i popoli e gli stati'.  Sebbene l'enciclica si sviluppi principalmente attorno alle tematiche che più da vicino concernono l'attuazione pratica di tale diritto (soprattutto: aborto, contraccezione, eutanasia e  manipolazioni genetiche) sullo sfondo resta l'ansia della riaffermazione della sacralità naturale  della vita, a partire dai contesti delle più 'antiche e dolorose piaghe della miseria, della fame, delle malattie endemiche, della violenza e delle guerre'.  In questa occasione, quest'ultimo ambito non è stato compiutamente sviluppato: viene invece richiamato in termini positivi tra i segni di speranza che il Papa intravede quali inviti ad un più coerente impegno per la tutela della vita, segnalando appunto 'la crescita, in molti strati dell'opinione pubblica, di una nuova sensibilità sempre più contraria alla guerra come strumento di soluzione dei conflitti tra i popoli e sempre più orientata alla ricerca di strumenti efficaci ma 'nonviolenti' per bloccare l'aggressore armato'.  2. Si tratta di un segnale che conferma l'orientamento attuale del Magistero cattolico, che negli ultimi anni si è mostrato sempre più preoccupato delle forme di consenso alla guerra come strumento per la risoluzione delle controversie internazionali, sanzionato anche da avalli giuridici apprestati dall'ONU, che talvolta sono stati giustificati in sede teologica, particolarmente evidenti nel caso della guerra del Golfo Persico, successiva all'invasione armata del Kuwait da parte dell'Iraq. Prima di procedere lungo l'analisi di questo filone, si deve immediatamente notare uno sfasamento dei piani sui quali si sono svolti  gli interventi magisteriali relativi al diritto alla vita, rispetto a quelli che hanno avuto per oggetto il diritto alla pace. Infatti, mentre i primi utilizzano per lo più categorie lato sensu pastorali, richiamando il diritto solo nel senso della necessità da parte delle legislazioni civili di tutelare la naturalità della vita, gli altri si sono invece sviluppati proprio in un ambito giuridico, più precisamente in quello del diritto internazionale.  La più recente riflessione cattolica sulla guerra ha oramai perso il sapore dichiaratamente giustificatorio che in passato aveva troppe volte assunto. Sebbene permangano degli orientamenti favorevoli addirittura ad una attualizzazione del concetto di guerra giusta, sul piano storico si può sostenere che dalla ferma condanna di Benedetto XV  verso 'l'inutile strage' della prima guerra mondiale, ed ancor più dopo il Concilio Vaticano II, vi sia stato un impegno coerente da parte del Magistero per cui la 'guerra è comunque da evitare'. Anzi, oserei dire che è  cambiato l'oggetto stesso della riflessione in materia, la quale ha compiuto un passaggio dalla guerra alla pace.  Abbandonato insomma il concetto morale di guerra giusta, la Chiesa afferma solennemente che 'ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città, di vaste regioni e dei loro abitanti è un delitto contro Dio e la stessa umanità e deve essere con fermezza e senza esitazione condannato' (Gaudium et spes, 80). E se da una parte si insiste sulla ricerca di forme pratiche che conducano alla pace positiva, dall'altra si nota che la riflessione teologica intorno al tema della pace è stata spesso distante dal parallelo approfondimento del superamento della guerra: cosicché, mentre la concezione del diritto alla vita si è sviluppata in chiave prettamente religiosa per poi riflettersi sul piano giuridico, quella sulla pace da un lato si è mantenuta sul piano irenico, senza conseguenze nemmeno per quanto riguarda l'elaborazione del concetto di diritto alla pace, e da un altro lato ha assunto una connotazione spiccatamente giuridica, elaborata cioè sul piano dello ius publicum ecclesiasticum externum.  3.  Per parte sua, anche il magistero conciliare sembra essersi sviluppato su questi due piani che fanno fatica ad incontrarsi: così da una parte si chiarisce che la pace non si identifica con la mera assenza di guerra, ma rappresenta un ideale ancora lontano, 'un edificio da costruirsi continuamente' (GS, 78), verso il quale gli uomini devono tendere consapevoli che  'essa è immagine ed effetto della pace di Cristo': da qui la necessità di un impegno personale per la giustizia e l'amore che non arriva però ad una condanna incontrovertibile della guerra. Essa infatti è considerata una parte 'della umana condizione', espressione del diritto degli Stati allo loro 'legittima difesa', per cui mentre si deve ricercare di 'mitigarne l'inumanità', si sente il bisogno di ribadire come i militari siano 'ministri della sicurezza e della libertà dei loro popoli' concorrendo, con la loro attività, 'alla stabilità della pace' (GS, 79).  Dall'altro lato si sviluppa l'itinerario più propriamente giuridico. Gran parte del pensiero conciliare nasce dalla constatazione dell'assenza di un organismo internazionale capace di dirimere in modo pacifico le controversie tra gli Stati.  Questo impone la costituzione 'di una autorità pubblica universale, da tutti riconosciuta, la quale sia dotata di efficace potere per garantire a tutti i popoli sicurezza, osservanza della giustizia e rispetto dei diritti'. In attesa che ciò avvenga, il Concilio auspicava che le istanze internazionali già esistenti si impegnassero ancora di più nel tentativo di impedire le guerre, la corsa agli armamenti, la sperequazione tra le Nazioni (GS, 82, 83), che vengono additate come altrettante cause di guerra. Da questo punto di vista, il Concilio segna alcune importanti aperture ed altrettanti punti fermi, che si innestano sulla linea già assunta in precedenza da Pio XII -  fautore della creazione di un organismo sovranazionale atto a prevenire le guerre e garantire la pace - e Giovanni XXIII - che fece della pace un tema centrale della dimensione pastorale assegnata con pienezza alla Chiesa, e che nella Pacem in terris da un lato esprime per la prima volta un'alta condanna totale della guerra e dall'altro formula l'auspicio della costituzione di rapporti tra Stati e con la comunità internazionale regolati da precise norme vincolanti -, inserite in un contesto realista che non ha impedito di porre in pratica nuove strade per la realizzazione della pace positiva, tra le quali in primo luogo l'opzione per i poveri, la promozione dello sviluppo e il riferimento al dialogo come metodo di relazione tra gli Stati atto a prevenire le guerre.  4. Il magistero pontificio sulla pace intesa come condizione umana necessaria ha avuto un punto di particolare fermezza con Paolo VI. Questi concepiva l'impegno diplomatico come 'l'arte di fare la pace': accrebbe pertanto tale settore di impegno della Santa Sede, sviluppando le istanze di dialogo ed approfondendo le intuizioni della umanità intera come 'famiglia globale', interdipendente, e rivendicando alla Chiesa il diritto di essere alfiere dei diritti dei Paesi poveri verso quelli ricchi ('lo sviluppo è il nome nuovo della pace'). In particolare, nel 1976 la Santa Sede elaborò un documento sul disarmo, che inviò all'ONU reclamando ancora una volta un potenziamento del suo ruolo, tra cui prevedeva pure la possibilità di assumere 'funzioni di polizia internazionale'.  Dal canto suo, anche il Magistero di Giovanni Paolo II rappresenta un ulteriore approfondimento di quanto elaborato dai suoi predecessori. Egli ha condannato la guerra in diverse occasioni, stigmatizzando come essa rappresenti 'il mezzo più barbaro ed inefficace di risolvere i conflitti'.  La recente dissoluzione dell'impero sovietico e del blocco comunista sembrava poi aprire ad una stagione di pace, relegando il pericolo della guerra alla memoria del passato. Al contrario, esso ha portato alla nascita di numerosi conflitti locali, spesso accesi in nome del nazionalismo, rispetto ai quali sono mancate espressioni politiche capaci di condizionarne gli esiti senza utilizzare la forza delle armi. L'unica grande potenza politica rimasta sulla scena, non è apparsa infatti capace di mantenere gli equilibri planetari senza minacciare l'uso delle armi, ovvero utilizzandole quando i suoi interessi venivano toccati più da vicino, come nel Kuwait. E anche alcune operazioni umanitarie sono state condotte con metodi militari, come in Somalia.  Dal canto suo, l'ONU ha manifestato in pieno la sua inefficienza, limitandosi a fornire agli interventori militari l'ombrello giuridico che giustificava la loro condotta. Il Papa non ha mancato di definire la guerra del Golfo una 'avventura senza ritorno' ed 'una grave sconfitta del diritto internazionale e della comunità internazionale', fino a gridare: 'Mai più la guerra!'. Egli non nemmeno  esitato a scendere sul piano 'laico' per motivare la contrarietà all'uso delle armi che in quella circostanza riteneva lesiva del principio di proporzionalità, per il quale occorreva considerare il nesso tra le conseguenze delle azioni militari intraprese e l'effetto che si desiderava conseguire. Egli avrebbe preferito che la risposta all'aggressione militare irachena fosse gestita e sanzionata utilizzando gli strumenti già messi a disposizione dal diritto internazionale, considerato anch'esso uno 'strumento di pace'.  Il Papa di conseguenza rimarcava l'esigenza di potenziare l'attività dell'ONU superando la sua perdita di autorevolezza. In seguito, nella Centesimus annus verrà presa in considerazione l'esigenza di un organismo internazionale capace di attuare la concordia tra le Nazioni: come assoluta novità rispetto al passato, il Papa ometterà però in quella  enciclica di considerare che le deficienze mostrate dall'ONU - cui 'non è riuscito fino ad ora di costruire strumenti efficaci per la soluzioni di conflitti internazionali alternativi alla guerra' (CA, 21) - siano tali da giustificare l'intervento di eserciti nazionali. Anzi, in quell'occasione ha sottolineato l'esemplarità dei metodi di difesa nonviolenti e la dimensione mondiale di un equilibrato sviluppo sociale quali strumenti per la prevenzione dei conflitti bellici (CA, 22 e 23).  Tale posizione è sembrata ad alcuni contraddittoriamente superata nelle prese di posizione relative alle vicende determinatesi nella regione balcanica. In questa ultima occasione infatti il Papa ha richiamato la comunità internazionale ai suoi doveri di 'ingerenza umanitaria', che scatterebbero quando una popolazione indifesa viene attaccata con le armi. Posizione formalizzata in una lettera inviata dal Papa al Segretario generale delle Nazioni Unite, Boutros Boutros Ghali, e consegnatagli personalmente dal card. Etchegheray, prefetto della Congregazione Iustitia et pax, l'11 marzo 1993: L'ONU è oggi il forum  più adeguato affinché la comunità internazionale  assuma la sua  responsabilità verso alcuni dei suoi membri incapaci di  vivere con le loro  sofferenze.  Supplico gli uomini di buona volontà che operano in seno all'Onu di fare tutto ciò che è in loro potere per mettere fine al conflitto  (...) L'autorità del diritto e la forza morale delle più alte istanze internazionali sono i fondamenti sui quali risiede il diritto di intervento per la salvaguardia della  popolazione presa in ostaggio dalla follia assassina dei fautori di guerra. Si è già accennato alla interpretazione 'militarista' che di questa teoria è stata autorevolmente data. In particolare, è stato notato come l''interpretazione autentica' espressa dal card. Sodano - che affermò 'il dovere e il diritto dell'ONU e dell'Europa di ingerenza per disarmare uno che vuole uccidere' - rappresenti la continuità col Magistero conciliare e pontificio, relegando le espressioni di assoluta condanna formulate in occasione della guerra del Golfo ad una parentesi determinata dalla situazione contingente. Tuttavia, si sono segnalate anche le voci che ne hanno sottolineato il tono non necessariamente interventista. E difatti, è necessario considerare che i pronunciamenti pontifici a tale riguardo hanno sempre escluso che l'ingerenza umanitaria corrisponda all'esercizio della guerra o comunque all'uso delle armi: non si trova infatti mai scritto che l'intervento della comunità internazionale debba attuarsi manu militari. A questo riguardo, particolarmente significativo appare un passaggio del  discorso pronunciato dal Papa il 16 gennaio 1993 al Corpo diplomatico accreditato preso la Santa Sede, in occasione del tradizionale scambio di auguri di inizio anno. 'Una volta che tutte le possibilità offerte dai negoziati diplomatici, i processi previsti dalle convenzioni e dalle organizzazioni internazionali siano stati messi in atto, e che, nonostante questo, delle intere popolazioni siano sul punto di soccombere sotto un ingiusto aggressore, gli Stati non hanno più il diritto all'indifferenza. Sembra proprio che il loro dovere sia di disarmare questo aggressore': anche in questo caso, però, sebbene secondo una logica materialista non sia possibile disarmare senza armi, il Papa non fa un espresso riferimento all'uso delle armi, ma considera indispensabile il preliminare ricorso agli strumenti diplomatici e nega l'esistenza del diritto all'indifferenza, che costituisce una cosa diversa dalla legittimazione della guerra. Oltre agli strumenti già accennati in diverse occasioni dal Magistero, in particolare al dialogo tra le parti in causa, l'ingerenza umanitaria consiste nel superamento dell'indifferenza verso un conflitto in atto, che può essere attuata attraverso l'invio di aiuti alimentari e sanitari, la creazione di corridoi sicuri per il trasporto di tali aiuti, nonché strumenti di carattere economico adottati dalla comunità internazionale. Solamente l'incapacità di pensare procedure nuove, che pure in alcune occasioni sono state felicemente sperimentate, impone l'equazione ingerenza umanitaria=uso delle armi: si pensi all'utilizzo di obiettori di coscienza non armati in zone di guerra in funzione di interposizione tra i belligeranti.   In queste circostanze, la riproposizione di atteggiamenti dubitativi rispetto alla condanna assoluta della guerra, ha il solo effetto di minare i risultati faticosamente raggiunti attraverso la proclamazione di un Magistero che al contrario sembra univoco e consolidato.  5. Il diritto alla pace, inteso come dovere di non ricorrere alla guerra, non rappresenta infatti soltanto una posizione storico-politica: appare invece il frutto di una riflessione teologica e pastorale - oltre che giuridica - che, come si è visto all'inizio, si basa sulla affermazione netta del diritto alla vita, cui consegue la configurazione di un diritto alla pace, anch'esso espressione di un valore costituzionale. Per le ragioni sopra accennate, occorre innanzitutto superare la critica fondata sull'ineluttabilità della guerra nelle vicende umane, per tentare una ricostruzione giuridica che tenga conto non tanto della necessità di porre rimedio alle guerre, quanto della opportunità di prevenirle. In questo senso, appare degna di nota la Dichiarazione dell'Assemblea generale dell'ONU del 12 novembre 1984 sul diritto dei popoli alla pace, che appunto proclama il 'sacro diritto alla pace', stabilendo uno stretto collegamento tra questo e il diritto alla vita. Un altro collegamento tra le due espressioni sembra inoltre potersi trarre dai passaggi della Evangelium vitae in cui si sviluppa l'attualizzazione dell'antico precetto magis Deo parendum quam hominibus. Nel contesto promozionale dell'obiezione di coscienza infatti, da un lato si ripropone la funzione tradizionalmente assegnata dalla Chiesa alla legge civile, regolatrice dei rapporti terreni in quanto 'assicura il bene comune delle persone,  attraverso il riconoscimento e la difesa dei loro fondamentali diritti, la promozione della pace e della pubblica moralità' (EV, 71). Da un altro lato si riafferma l'esistenza per il cristiano dell'obbligo grave e preciso di opporsi ad esse quando non corrispondano a tali finalità, assumendo il rischio di 'andare in prigione e di essere ucciso di spada' (EV, 73).  'I cristiani - si legge nell'enciclica - come tutti gli uomini di buona volontà, sono chiamati, per un grave dovere di coscienza, a non prestare la loro collaborazione formale a quelle pratiche che, pur ammesse dalla legislazione civile, sono in contrasto con la legge di Dio. Infatti, dal punto di vista morale, non è mai lecito collaborare formalmente al male. Tale cooperazione  si verifica quando l'azione compiuta, o per la sua stessa natura o per la configurazione che essa viene assumendo in un concreto contesto, si qualifica come partecipazione diretta ad un atto contro la vita umana innocente o come condivisione dell'intenzione immorale dell'agente principale' (EV, 74).  Seguendo questa linea di pensiero, il Papa specifica come i comandamenti di Dio, e tra questi soprattutto quelli che configurano precetti morali negativi, rappresentano 'tappe necessarie del cammino verso la libertà'. Il loro intimo collegamento con la libertà della persona li costituisce quali diritti fondamentali che la legislazione civile dovrebbe garantire in modo positivo. Tra questi, l'Evangelium vitae segnala il comandamento del 'non uccidere' quale 'punto di partenza di un cammino di vera libertà'.   A mio parere, non si può fare a meno di ravvisare in questo contesto anche la condanna della guerra, intesa oggettivamente come disobbedienza di questo comandamento, nonché la promozione della pace, intesa dunque come diritto di ciascuno a non essere ucciso per mezzo di eventi bellici.  6.  L’esistenza di un diritto alla pace inteso come valore costituzionale, emerge infine anche nella Costituzione italiana, cui vorrei  brevemente fare riferimento in quanto mi pare costituire un valido esempio di come possa considerarsi sostanzialmente posto un principio costituzionale che di per sé non è formalmente espresso. L’art. 11 della Costituzione italiana del 1948 recita:  ‘L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo’. Normalmente - in linea con la tendenza tradizionale che considera la pace come assenza di guerra -, di questa norma si valorizza soprattutto l’espressione ‘ripudio della guerra’: da cui si ricava (a contrario) l’esistenza del principio pacifista.  Sennonché, la dottrina più accreditata si è sforzata di spiegare come il ripudio della guerra andasse inteso in senso circoscritto e limitato alla sola ‘guerra di offesa’. E ha avuto buon gioco nel riferire come i lavori preparatori della Costituzione andassero nello stesso senso. E’ del resto vero che i costituenti non potevano concepire il  principio pacifista così come lo intendiamo oggi, considerata la mentalità dell’epoca e la divisione bipolare che la po-litica internazionale aveva oramai assunto. Più in particolare, l’atteggiamento con cui si guardava agli Stati dell’Europa orientale sembrava all’epoca sufficiente per giustificare la liceità del ricorso alla guerra di difesa: così da considerare la pace sì un bene ‘primario, ma non assoluto’, e comunque ‘subordinato al fatto di essere realizzata nella condizione della reciprocità e della giustizia’.  Se si abbandona però il dibattito tradizionale e si guarda alla norma in esame in maniera più completa, si può con facilità notare come lo stesso art. 11 contenga altri principi che al contrario valorizzano precisamente il valore della pace. La seconda parte dell’articolo attribuisce infatti un ruolo particolare alla costruzione della pace e della giustizia fra le Nazioni, tanto da consentire delle limitazioni alla sovranità stessa, al fine di promuovere questi valori. Fino a prevedere non solo la partecipazione, ma persino la pro¬mozione di organizzazioni internazionali che siano rivolte a conseguire tale scopo, limitando l’autonomia e l’indipendenza dello Stato.   La costruzione (e non solo la tutela) della pace può quindi essere assunta come un dovere ci¬vico; ma prima ancora, per restare ancorati al testo costituzionale, l’assicurazione della pace rappresenta un dovere pubblico soggettivo. Essa configura cioè un compito proprio dello Stato, che è tenuto ad assolverlo anche in forza del suo inserimento nel contesto della comunità internazionale. Nondimeno, pure l’art. 10 della Costituzione, primo comma,  recita che ‘L’ordinamento giuri¬dico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente ricono¬sciute’: intendendosi con ciò la superiore vincolatività che assumono i principi internazionali rispetto a quelli interni. Come si può facilmente notare, i valori espressi in questa materia dalla Costituzione italiana presentano diversi tratti di contiguità con l’evoluzione del Magistero cattolico: da un lato si nota la possibilità di pensare ad una revisione limitativa della sovranità statale in ragione della promozione della pace, dall’altro si constata come la pace non sia mera assenza di guerra, ma corrisponda ad uno stato di giustizia tra le Nazioni.   7. Non si può trascurare infine la connotazione del diritto alla pace come diritto umano, non soltanto in virtù del principio espresso in modo chiaro e formale nel documento delle Nazioni Unite già citato, ma anche cogliendo l’inestricabile intreccio tra il dovere pubblico di assicurare la pace ed il correlativo ‘sacro diritto’ dei po¬poli alla pace. ‘Il diritto alla pace comporta infatti che si possa pretendere, legittimamente, che gli stati adottino politiche interne ed estere coerenti con gli obbiettivi della pace positiva (disarmo e cooperazione internazionale, sostegno degli organismi internazionali, controllo della produzione e del commercio di armi, riconoscimento del diritto alla obiezione di co¬scienza al servizio e alle spese militari, ecc.): la pretesa è nei confronti del proprio stato di appartenenza ma anche, e contemporaneamente, di tutti gli altri stati, se è vero che la pace è una e indivisibile e il suo avveramento non dipende quindi da un solo stato’. Il diritto alla pace corrisponde quindi al diritto di ciascun uomo e di ogni nazione a vivere in concordia, realizzando perciò condizioni che consentano un equilibrio planetario capace di prevenire gli stessi contrasti che sono alla radice delle guerre. Si presenta quindi un quadro di riferimento che assegna il ruolo di operatori di pace non solo agli Stati sovrani, ma a tutti i soggetti che a vario titolo da un lato possano determinare le condizioni che prevengano i conflitti, e dall’altro possano intervenire anche nella risoluzione dei focolai già accesi. In quest’ultima ipotesi, occorre pensare non solo alle istanze sovranazionali di tipo istituzionale, ma anche a strumenti di dialogo utilizzati da soggetti che siano comunque in grado di ristabilire la pace. In questo senso va ad esempio lo sforzo intrapreso in certe situazioni dalla Santa Sede o da altri soggetti  popo¬lari che vogliano intervenire, magari insieme ad uno Stato o alle organizzazioni di Stati, ovvero per loro conto, in difesa della pace.  Si tratta dunque di sfruttare in modo creativo le opportunità che, a vario titolo, in molte e disparate occasioni sono concesse a diversi soggetti affinché si facciano costruttori di pace. Questa mi sembra la prospettiva in cui il Papa ha negato l’esistenza di un diritto all’indifferenza, invocando al contrario un dovere di ingerenza dei popoli nella difesa della vita e nella correlativa promozione della pace.  Pierluigi Consorti